Il Cerchio magico: Il caso di Alfie Evans e la scelta del silenzio

In queste ultime settimane un altro bimbo inglese, dopo Charlie Gard, occupa le pagine dei nostri giornali e l’attenzione dei social: si tratta di Alfie Evans, bimbo di due anni affetto da una gravissima malattia neurologica degenerativa a causa della quale sopravvive solo se collegato a dei macchinari.

Secondo il parere dei medici Alfie si trova attualmente in una condizione per la quale continuare a mantenerlo in vita è da considerarsi accanimento terapeutico. Il piccolo è soggetto a frequenti crisi epilettiche che resistono anche alla terapia farmacologica e la sua risonanza magnetica cerebrale rivela crescenti lesioni in diverse aree, mentre il cuoricino continua a battere in maniera quasi normale.

I genitori del bimbo, comprensibilmente, non riescono ad accettare questa decisione e hanno chiesto più volte che venga portato al Bambin Gesù dove – ritengono – verrebbe tenuto in vita più a lungo e verrebbe consentito loro di stargli sempre accanto, ma la corte inglese alla quale l’ospedale si è rivolto ha negato questa possibilità.

La questione è, evidentemente, assai controversa e incredibilmente dolorosa: ci sono in gioco i sentimenti devastati di due giovani genitori, il dolore e – purtroppo – l’assenza di speranze per il bambino, il gigantesco tema del confine tra accanimento terapeutico e eutanasia passiva; tutti elementi in grado di smuovere sentimenti profondi, paure e anche rabbia. Non stupisce quindi che su un caso del genere si siano scatenati i commenti degli utenti dei social e si siano create opposte fazioni: tra chi accorda fiducia all’ospedale inglese e ritiene che i genitori vadano accompagnati ad accettare l’inevitabile e chi vuole cercare qualsiasi soluzione (compresa quella ai limiti del possibile del trasporto in un altro Stato) per continuare a tenere in vita il bimbo. Purtroppo, come già accaduto con Charlie, alle fazioni spontanee che si formano e che si dividono tra opinioni comunque legittime, si sovrappongono strategie comunicative che nulla hanno di spontaneo o di gratuito: giornali online che si fanno portabandiera del caso in funzione accalappia-click, aspiranti influencer cattolici che sfruttano il dolore dei genitori per trovare visibilità, giornalisti e scrittori che insultano pesantemente medici e giudici inglesi dando loro degli assassini, dall’alto della loro onniscienza sulla questione, per guadagnare qualche follower in più.

In tutto questo personalmente ritengo che si possa, che sia legittimo scegliere di non schierarsi, di ammettere che davanti a tanta complessità, al dramma assoluto di questa piccola vita e di chi l’ha generata, non  sappiamo che dire e che pensare. E non si tratta di lasciar soli i genitori nella loro battaglia, perché – e mi dispiace dirlo – non è detto che sia una battaglia giusta: è comprensibile, legittima, ma non necessariamente giusta! Personalmente non lo so e non sono neppure convinta che un genitore, per il fatto di essere genitore, abbia sempre e comunque la capacità di discernere il vero bene del proprio figlio. Vorrei che fosse così, ma la realtà (e anche la nostra stessa esperienza) a volte ci consegna una storia diversa: i genitori non sono infallibili. Ovviamente nemmeno i medici sono infallibili e neppure i giudici. È un dramma vero e il dramma è tale perché non c’è una via d’uscita positiva, in nessun caso, quindi ci si trova a scegliere tra due mali: tenere in vita un bambino che non ha speranze di vivere, di migliorare, e che forse soffre oppure lasciarlo morire sapendo che con una macchina lo si potrebbe trattenere ancora un po’.

Per i credenti questo restare in silenzio, evitare di schierarsi, di lanciare parole nell’etere può diventare preghiera se lo si desidera. E la preghiera non “strappa la grazia dalle mani di Dio”, ma consente a Dio di lavorare il nostro cuore perché si disponga ad accogliere la Sua volontà. È l’atto umile della creatura che si mette nelle mani del suo creatore, non l’urlo tracotante di chi vuole insegnare a Dio cosa dovrebbe fare per essere un “buon Dio”.

Qualunque cosa si pensi, qualunque cosa si desideri per questo bimbo, l’essenziale ritengo sia non sciacallare sulla sua vicenda e sul dolore della sua famiglia: il mistero del dolore innocente ci trovi disarmati e senza interessi in gioco.