A Moncalvo l’arte di Chen-Li con “L’eleganza del gelsomino”

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L’arte come scrittura – binomio parallelo e inscindibile dal suo enunciato speculare, la scrittura come arte – non opera in territori ambigui, confusi o inesplorati, né aridi o sfiniti. Percorsi in effetti, pure se non affollati, da sentieri diretti e derivati dalle tradizioni della poesia figurata, dalle apparizioni periodiche dei calligrammi, dalle storiche figurazioni segnico-linguistiche di pittogrammi e ideogrammi ecc. E proficui ancora di innovazioni o perlomeno di trasformazioni metamorfiche. «La scrittura è un processo produttivo translinguistico che rappresenta contemporaneamente un ordine di realtà, il linguaggio, e una realtà, la sua materializzazione», (Matteo D’Ambrosio, Arte come scrittura, in “Undicesima Quadriennale di Roma”, Milano 1986).

La scrittura nasce infatti, nella sua realizzazione formale, dal segno pittorico, usato sia per la raffigurazione di un corpo reale, sia per la materializzazione visiva di un concetto mentale: l’idea, il pensiero, il mito. È pertanto il risultato di una metamorfosi, in un costante sviluppo di astrazione del segno nella semplificazione della sua forma pittorica. Giungendo fino ad una scrittura attiva in una duplice valenza: la produzione di un significato e la rappresentazione attraverso la sua iconicità di una espressione autonoma derivata dalla sua immagine: il grafema. Iconico, plastico, spaziale, indefinitamente variabile nella struttura. Indipendentemente da ciò che immutabile esprime con la comunicazione concettuale e fonetica.

Il percorso artistico di Chen Li si incentra sull’aspetto iconico del significante linguistico, la sua natura visiva, e riflette sulla possibilità della scrittura di «produrre non solo significati ed espressioni in proprio, fuori di ogni rappresentanza della lingua, ma di entrare in conflitto con essa», (Giovanni Pozzi, La parola dipinta, Milano 1981). L’analisi del suo lavoro consente infatti – parallelamente alla esperienza grafica e calligrafica che l’ha condotta prima di privilegiare l’aspetto artistico della scrittura (di figurazione, di astrazione e concettuale) – di percorrere le tappe di un segno da intendere come:
– scrigno di sapere
– enunciazione (e comunicazione esplicita) di un significato immutabile
– forma significante di un gesto
– mezzo di individuale espressione artistico-creativa
– comunicazione (possibilità implicita in relazione alla volontà del fruitore di intenderlo come tale) di un messaggio estetico

«Ho incontrato la calligrafia dopo i vent’anni, nel 1994 – dice Chen Li –, e ho capito subito che sarebbe stato quello, il mio destino. Ho cercato di imparare tutto quello che si poteva: stili storici, materiali, supporti, tecniche. Ho incontrato e frequentato i professionisti migliori, gli artisti contemporanei. Ho viaggiato in molti Paesi per raccogliere libri e materiali per questo studio infinito».
Ma è soprattutto una frase che chiarisce il perché principale della sua preparazione e della possibilità di riuscire a condurre a termine un viaggio che rappresenta un ideale: «Ho mescolato i modelli occidentali con gli insegnamenti e il ritmo dell’Oriente».
Se una lacuna sarebbe tuttavia potuta esserci nella sua preparazione, il contatto cioè con la cultura araba, in parte è stata colmata dall’incontro con Ricardo Rousselot, maestro argentino che da molti anni vive in Spagna, latore dell’arte (monca della rappresentazione realistica degli esseri animati) del mondo islamico, e della conseguente cultura della “decorazione” come arte. «Mi raccontò i suoi inizi presso grandi designer negli States: lui che amava la lettera così tanto si dedicò a disegnare logotipi, marchi, packaging dal gusto ricco e caldo. Il suo stile ricorda proprio la bella cultura spagnola con le decorazioni e gli svolazzi accentuati e rafforzati come mustacchi».
Ma il desiderio di esprimere emozioni proprie è diventato irrefrenabile: «Presto ho sentito la necessità di rendere il mio lavoro più attuale e mi sono avvicinata all’arte contemporanea. A questo periodo risalgono le grandi tele rosse. Il segno e la lettera diventano una rappresentazione scenica dove chi guarda diventa spettatore e spesso parte integrante del quadro».

Non può essere estraneo a questo passaggio la condivisione dell’assioma di Émile Benveniste: «Le caractère du langage est de procurer un substitut de l’expérience apte à être transmis sans fin dans le temps et l’espace» (“Communication animale et langage humain”, Revue Diogène, Paris 1952) che prevede e predispone l’accettazione nella comunicazione semantica di materiali semanticamente informi. Questi, nell’ultima fase della ricerca di Chen Li, diventano un aspetto fondante nella costruzione (materializzazione) della forma significante, di cui arrivano a presentarsi prima come parte integrante, ed infine a sopraffare, quando non a escludere l’esplicitazione grafica della significazione. Il rapporto scrittura-arte si altera quindi nella prevalenza del valore del significante che attraverso le sue qualità fisiche (materiali e plastiche) ed i suoi aspetti estetici condiziona e definisce aspetti noetici superando i significati convenzionali (comuni ed acquisiti) per crearne (inventarne privatamente) dei nuovi e fondamentalmente inediti. In un processo che parte dalla destrutturazione della scrittura per la ri/scoperta dei valori arcaici del segno, nel fascino del ritorno-recupero dei valori germinativi della comunicazione del pensiero, per arrivare all’assolutezza dell’iconismo.

Una lunga premessa, breve tuttavia se in rapporto ai quasi due decenni di carriera artistica di Chen Li, che sintetizza un periodo ricco di esperienze e che porta istintivamente a una prima considerazione: a chiederci perché.
Senza interferire, per carità, nelle autonome scelte di un’artista che a ragione rivendica a sé ogni decisione in nome della libertà dell’arte (e non sarebbe “artista” chi non agisse in questa direzione). «Il lavoro artistico (ma vale per ogni tipo di lavoro) è soggetto a una nostra autocensura. Per renderci più gradevoli, più vendibili, più giusti per il mercato. Talvolta ci nascondiamo dietro a uno stile precostituito che ci rende riconoscibili. Il sistema impone delle regole, le regole del nostro lavoro. L’autocensura diventa allora uno stile di vita. Ripensando al rapporto tra l’artista e la censura ho immaginato il ruolo dell’indipendenza» – dice ancora Chen Li –. «In un artista l’indipendenza è il presupposto necessario per qualunque opera o processo o progetto di opera. La censura o l’autocensura spesso impediscono l’indipendenza o la limitano, rendendola un ibrido».
Ricordando l’assunto di Pier Paolo Pasolini: «A un artista va lasciato il diritto all’errore almeno in quanto contraddizione o ipotesi precoce o ritardata. Egli non deve tacere nulla perché in un artista il peccato più grande è l’omissione».

Perché dunque la scelta della prevalenza della materia nella costruzione del significante?
La mostra all’Isola di San Rocco al Ponte delle Ripe di Mondovì, data la disposizione degli ambienti espositivi dislocati in tre sale sovrapposte, delinea un percorso dantesco, ad anelli, rinchiudibile in un hortus logico, un sistema spazio-temporale non frequente nel curricolo di un giovane artista che lo pone (così come chi guarda la mostra ed inconsciamente viene a conoscerlo attraverso l’opera) di fronte ad uno specchio, svelandone l’anima (come attraverso il discoprimento di un mosaico o di un puzzle dopo la sua composizione attraverso l’accostamento di un numero indefinito di tessere ognuna cifrata con un solo – univoco-incompleto-parziale-insufficiente – messaggio). Così come l’insieme delle molecole forma un corpo, o, più attinente al nostro discorso, come una pagina nasce, e non per caso sono una diversa dall’altra, dallo stesso mucchietto anonimo dei caratteri di piombo del tipografo.
Si può allora guardare all’opera con differente metodologia e intento:
– nella sua sintesi strutturale
– in una prima segmentazione a blocchi omogenei raccolti per soggetti o cronologie
– nella sua destrutturazione, con l’intento di un’intensificazione espressiva di ogni parte, accettandone il ventaglio dei modelli, la varietà delle strategie creative, la pluralità degli encodages.

È in quest’ultimo modo che solitamente ci si accosta a una mostra; ma è il primo, la visione d’insieme, che ce ne darà (nell’ordine) il senso, l’impressione, il ricordo. E l’opera di Chen Li, superando questa metodologia di analisi, completa e solida nei capitoli, autorevole spesso nelle singole parti, rivela una traiettoria foriera di potenzialità, tuttavia (a noi s’intende, che lei sa bene dove parare) imprevedibili e nebulose.
Ed ecco il perché di questa lettura.
Il cammino che ha inizio dalle esperienze calligrafiche la porta attraverso l’esplicitazione di un’innata eleganza, frenata a volte dalle esigenze compositive oppure libera nella conquista dello spazio nell’ebbrezza gestuale, nella grazia della voluta, nella robustezza della macchia, alla piena consapevolezza delle sue possibilità. La gabbia del rigo, della sezione aurea del foglio, della fortezza inespugnabile ai non eletti del perimetro a lati paralleli, cittadella esclusiva della parola, le dà sicurezza. All’interno del crogiuolo compositivo Chen Li sa di essere regina, di non poter mettere il piede (la penna) in fallo. Che il supporto primario che fu la carta si trasformi col tempo nella tela, non importa, così come l’indagine nelle culture vecchie e nuove che l’incuriosiscono, la scoperta dei modi differenti di intendere l’afflato poetico, contemplativo o descrittivo, filosofeggiante o zen, romantico e lacerante, sognante e lieve, realistico e crudele. Sposa Oriente ed Occidente, ne interpreta l’unione – il diverso modo di intendere la prospettiva, bidimensionale con sviluppo nell’altezza, tridimensionale con soluzione nella profondità – in modo mirabile. Sconfina a piacere tra segno e colore, lettera e macchia; taglia in diagonale gli spazi, distribuisce pesi e tonalità; gioca con i ritmi, che bilancia in equilibri sospesi come il fiato di chi guarda, stupisce, e capisce.

L’ornato della linea si fa punto e cuneo, pittogramma e arabesco, efflato poetico e labirintico diario di bicromie chiosate da note rosse, nere e gessose. Lacca e sangue, neve sulla neve.
È un estetismo raffinato che supera la realtà, nell’esaltazione dell’idea e della figura (la parola e l’immagine); nella ricerca continua della perfezione della dizione; lo sforzo dello scavare e del depositare, dell’impasto e del riporto; la sperimentazione dei materiali: lucidi opachi trasparenti assorbenti rigidi flessuosi… nel rispetto della conoscenza, della tradizione e della materia, della legge – quella mediata dallo spirito, aliena da fondamentalismi manichei (il tiranno va ucciso) –, che accetta la nuova via che l’intelletto svela operando dall’interno, in sintonia col mutare del tempo e dei tempi.
Sapeva Gino Gorza il concetto leonardiano di punto e di linea (di cenno e di configurazione): «Il punto è istante, la linea quantità di tempo». Chen Li costruisce le parole con la linea per fissare la dimensione di un’idea, imprigiona il tempo dandogli forma, compone isole come racconti, danza figure illusorie col dedaleo artifizio dell’immagine ideografica. In una dialettica che porta all’identificazione di due differenti teatri di svolgimento, l’affermazione dell’idea e l’emozione dell’ideogramma.
Con gusto scaltrito da secoli di meditazione che si condensano nell’emozione del gesto. Nel virtuosismo di un colore-non colore che diventa brillio, nella libertà che beffa il pretesto illustrativo o decorativo. Con la coscienza di essere nel coro la voce inconfondibile, quella che pretende l’eco nel gioco delle parti.

Nell’ultima fase del suo lavoro, subentra non improvvisa né imprevista, ma a tratti stridente (non necessaria?) la varietà eccessiva dei linguaggi, la curiosità del mondo che intravede (di cui è affascinata dalle possibilità espressive) oltre il piano del supporto.
Chen Li sceglie di andare “Through the Looking-Glass”, oltre lo specchio, saggiando un universo nuovo. Nell’ebbrezza del vincolo che si è dissolto, della legge che si lascia trasgredire, dell’esaltazione del diverso.
Anche l’arte ha un suo lato oscuro. «Mi piace pensare all’arte come a un gioco in cui verità e perversione possono coesistere liberamente», scrive per gli ultime opere, foto digitali su tela, tele accoppiate a plexiglas con testi poetici.
Prova anche, e persegue con originalità e successo, il linguaggio promiscuo dell’installazione.
Presso l’Archivio Storico Olivetti presenta “Women – Donne”, parole per progettare: 20 elementi in gesso che raffigurano una scarpa femminile con il tacco, fissate ognuna su un piedistallo, disposte a simboleggiare un percorso. Su ogni elemento, per ciascun passo della progettazione, c’è un’iscrizione, una parola tratta da testi di Italo Calvino e di Bruno Munari che rappresenta un valore. Eccoli: leggerezza-rapidità-esattezza-visibilità-molteplicità-inizio-fine-conoscenza-forma-pensiero-linguaggio-ambiguità-gioco-indipendenza-messaggio-movimento-struttura-texture-modulo.
La scrittura è diventata corollario, relegata in posizione di rincalzo, quasi a spiegare, o ribadire, un significato.
Ma il significato è altrove.

L’eleganza rimane somma, ma la materia inerte ha preso il sopravvento.
Nell’eccesso mediatico, autentico tsunami globalizzante, l’Occidente che ha venduto la poesia e dimenticato i sogni, che ha bisogno dell’esasperazione della realtà, degli effetti speciali dello spettacolo, ha forse contagiato anche l’ultima anima virtuosa?

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Chen li Curriculum d’Arte
Chen-Li la critica

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