Il Cerchio Magico: Trenta libri per scoprire il proprio valore

È di questa settimana la notizia della sentenza civile di risarcimento emessa dal giudice Di Nicola del Tribunale di Roma che prevede che il cliente di una delle cosiddette “baby squillo dei Parioli”risarcisca la giovanissima in questione con l’acquisto di 30 libri sull’identità femminile, invece di corrispondere i 20mila euro richiesti dai difensori della ragazza (all’epoca quindicenne). 

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L’uomo, condannato a due anni senza attenuanti e con interdizione perpetua dalle istituzioni pubbliche e private frequentate dai minorenni, dovrà quindi far avere alla ragazza romanzi di Virginia Woolf, poesie di Emily Dickinson, saggi di Hanna Arendt, Luce Irigaray e molte altre.

In questi giorni ho letto diversi commenti che andavano dai più entusiastici, che parlavano di sentenza esemplare, ai più critici che venivano in particolare da parte di pensatrici femministe che ritenevano profondamente ingiusto che si chiedesse al condannato di fornire materiale per la riflessione alla minorenne di cui aveva abusato, perché questo lo farebbe assurgere al ruolo di educatore e ridurrebbe la ragazza ad una Eva tentatrice da redimere.

Io non sono d’accordo con questa analisi perché ritengo che invece in questa sentenza sia contenuto un messaggio molto profondo da cogliere, che va oltre l’esemplarità per arrivare addirittura a mettere in discussione il paradigma della nostra giustizia. Attraverso l’ingiunzione a comprare dei libri sul rispetto della donna effettivamente si colloca il “cliente” in un ruolo educativo, ma questo non ha nulla di pretestuoso, è piuttosto una interrogazione fortissima della realtà perché nei confronti dei minori gli adulti DEVONO porsi SEMPRE come educatori e MAI come sfruttatori.

Per questo la sentenza in qualche maniera ricolloca le parti là dove avrebbero dovuto sempre stare: da una parte una ragazzina che sta crescendo e deve sviluppare un grande senso del proprio valore come essere umano e come donna e dall’altra un adulto che deve concorrere a questa costruzione, certo non lacerarla fin nel profondo. È proprio la rottura di questo schema che è naturale e etico ad aver generato il male, per cui la sentenza prova in qualche maniera (e con tutte le cautele del caso) a ripristinarlo. In questo senso leggo una eco di quella che si chiama Giustizia Riparativa, che mette cioè al centro le persone e coinvolge vittima e carnefice in un percorso di ricostruzione di legami sociali feriti.

È quello di cui ci parla anche un libro prezioso scritto recentemente da un gesuita, padre Francesco Occhetta (“La giustizia capovolta” ed. Paoline), che dice “il modello di giustizia riparativa prevede un processo in cui, più che concentrarsi sull’oggetto del reato, si pongono al centro i soggetti del reato, al punto che cambia la stessa epistemologia giuridico-criminologica: il reo, invece di essere ‹responsabile di› (una truffa, una violenza, un abuso, ecc.) è ‹responsabile verso› qualcuno”(p.41-42). In questo caso l’uomo è responsabile per sempre verso quella ragazza, non ha semplicemente commesso un abuso, ma ha abusato di LEI e deve almeno in qualche modo riparare a quel danno.

Possiamo sperare che questa sentenza apra una strada nella direzione di una giustizia che concorre a ritessere legami sociali spezzati, che responsabilizza le persone per le loro azioni e si fa carico del percorso umano delle vittime per superare la loro sofferenza. Allora sì questa sentenza compirà la propria opera e potremo sperare che aiuti a rendere questo nostro Paese un posto un po’ più sano e sicuro per le nostre ragazze e per tutti.

Paola Lazzarini

 

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